Sull'emozione cattiva. Il senso di colpa.

Senso di colpa

 

La riconoscerei in qualunque situazione, è una viaggiatrice sapiente, viene dal tempo di me bambina.

Sì, eccola là, posso vedere nello schermo del mio cervello la prima volta che si è palesata.
Mi aspettava tra i cocci del piatto che avevo rotto inavvertitamente e mi ha abbracciata forte mentre li raccoglievo tra le lacrime e le grida troppo forti per i miei piccoli padiglioni auricolari.
Ho accettato l’abbraccio di cui avevo tanta fame, troppo piccola per sapere che un gesto di affetto a volte può essere velenoso.

Eccola là, tracotante e potente, si è incuneata nello sterno, ha scavato uno spazio comprimendo il diaframma e mi ha stretto lo stomaco nella sua mano forte. E mentre l’apparato digestivo contratto inviava impulsi di dolore al cervello, il diaframma scalciava togliendo fiato ai polmoni.

Lei, il senso di colpa, perde il suo genere maschile grammaticale e indossa quello femminile perché è donna chi lo ha marchiato per prima sulla mia pelle.
Lei, è fredda, molto fredda, ma soprattutto è acidula. Si amalgama con i succhi gastrici che risalgono dallo stomaco all’esofago e che vorresti mandare giù, ma rimane incastonata come una pietra preziosa creando degli ostacoli al passaggio nel tubo digerente.

Mentre respiri poco e male, l’assenza di ossigeno ti invia in visione la domanda: come fa un acido a essere così solido?

Non c’era risposta allora, perché ero solo una bambina e non sapevo ancora che quello solido non è l’acido di un riflusso, ma le parole che non riesci a dire e che si comprimono formando un bolo di non detti e che diventa ogni volta più grande. È il senso di colpa di non essere abbastanza per riuscire a generare amore, che si lega all’incapacità di comprendere un sentimento malato.

Non sapevo ancora che la giusta risposta a un rimprovero vuoto d’amore non è il senso di colpa, non potevano capirlo la manciata dei miei anni.

Reagivo al castigo al meglio di come le mie emozioni incomplete potevano fare, un castigo che non era punizione ragionevole, ma era broncio e silenzio rancoroso.

Un broncio cattivo, di odio verso se stessi più che verso di me, che però ero terreno fertile con la mente immatura, in formazione, troppo giovane.
Un rancore che cresceva sempre più e che mortificava più colei che lo agiva che chi ne era vittima.
Un silenzio che era ricatto di un amore che c’era, ma non riusciva a transitare, ad arrivare, un amore che deludeva e umiliava perché incapace di accettare se stesso.

Tanti lustri dopo, la riconosco ancora, la vecchia nemica-amica senso di colpa, anche se non arriva più dal broncio di chi ormai si è fatta fragile e canuta.
Adesso lei è più grande e matura, più scaltra. Prova a nascondersi dietro un lavoro imperfetto, ringhia per una dimenticanza o si beatifica nel broncio di un compagno che non sa quanto quel silenzio faccia sanguinare le viscere.

La riconosco anche se prova a mascherarsi da altro, ritrovo il suo bussare sul mio sterno e il suo tentativo di impossessarmi dei muscoli necessari al mio respiro.

Solo che adesso non accetto più il suo abbraccio venefico, mi stringe ancora lo stomaco e schiaccia il diaframma, ma ora so che posso comunque respirare, oggi so che lei non mi possiede.

Quando la vedo arrivare, la lascio fare. Quasi le sono riconoscente del dolore di allora e di adesso, perché ha fatto di me ciò che sono oggi, ma ora io sono alveo e lei fiume che scorre sopra di me.
Oggi sono io ad abbracciare lei, questa emozione cattiva e quell’antico dolore.

Le spiego che non le permetterò di guidare le mie azioni, non soccomberò di fronte alle sue lusinghe di una vita felice, pagando il prezzo di sacrificare la mia essenza per ricevere un amore che non meriterò mai.
Non si può vincere una gara truccata, per questo ho deciso di smettere di competere.
L’accarezzo, mentre le dico che non sacrificherò me sull’altare di una aspettativa impossibile di accettazione.

Le dico che il momento è giunto, anche lei dovrebbe cambiare, evolversi, diventare altro, invece di farmi impiegare ancora tempo ed energia a impedirle di attraversare il mio corpo, i miei nervi, il mio fiato.
Glielo dico quando si presenta con il suo broncio sofferente, ogni volta sempre più stanca: invece di continuare a provare a dominarmi, prova a specchiarti nella mia felicità.